Il 5 aprile del 1994 Kurt Cobain mette fine a una vita che lo ha reso suo malgrado portavoce di una generazione; un’esistenza ormai governata dal dolore, dalla depressione, dalla ricerca di uno stordimento mentale e fisico, di un ottundimento sensoriale che lo liberasse dalle sofferenze come dalle passioni di cui non riusciva più a godere.
Ma il colpo di fucile con cui il frontman dei Nirvana ha deciso di cancellare i propri tormenti – e che lo ha cristallizzato per sempre nell’icona in cui il mainstream era riuscito a trasformarlo – non si è portato via soltanto la voce, straziata e straziante, di album indimenticabili e ormai immortali della storia del rock; perché prima di non vedere altra soluzione se non quella della morte, Kurt Cobain è stato tanto altro.
È stato un bambino allegro e spontaneo, irresistibile nel suo entusiasmo, presto fiaccato dal desiderio inesaudibile di una famiglia unita e felice; un adolescente complicato, sempre fuori posto, vessato dai redneck, determinato nei suoi progetti di fuga da una provincia popolata solo da “idioti, cavernicoli e taglialegna”; un ragazzo curioso, affamato di esperienze, nei cui occhi la scoperta liberatoria del punk ha saputo far brillare una fiamma che non avrebbe mai potuto spegnersi lentamente, ma solo bruciare in quello che al mondo è sembrato un attimo meraviglioso e irripetibile.